i pensatori di gabbie
30 aprile 2015
galleria frediano fersetti firenze
Un incrocio di rami, vacuo supersite di un esangue Albero della Vita, sorregge in equilibrio precario due gabbie in cui cinguettano minuscoli canarini. L’una in frivolo ferro e l’altra costruita di grissini sono elette a vessillo di un’analisi concettuale sull’iconografia della gabbia, intesa quale luogo di inedia, costrizione, prigionia. Ad una delle due sfortunate creature fin da prima è negata ogni possibilità di fuga, mentre all’altra accade che libertà e costrizione si trovino in rapporto di coessenzialità reciproca: nella piccola prigione gourmand l'uccellino può ambire al volo mangiandone le sbarre. In realtà, nella sofisticata leggerezza di questo gesto, preludio all’assenza e alla mancanza, dove anche si ravvisano le atmosfere dei leziosi boudoir di Boucher (ogni mademoiselles, tra le trine ei merletti doveva forse possedere tale graziosa suppellettile), si cela un terribile intento sadico; come fu la casa di marzapane per Hänsel e Gretel, la gabbia di grissini materializza il desiderio di sopravvivenza per trasformarsi una trappola, trucs, machins, mekané che simula, ma soprattutto nasconde, che esaurisce in sé le due eterne metà ontiche, il dentro e il fuori. I risvolti esistenziali di questa fragile creatura plausibilmente incapace di avere cura di sé ed inevitabilmente esposta al degrado ambientale, certamente sottendono la sua morte prematura. Il progetto di Leonardo Mastromauro configura un’allegoria, una struttura simbolica dedita a chiarificare quanto le interdizioni invisibili siano sovente più infide di quelle di cui invece è immediato il senso di pericolo. La salvezza che pare lontana da quel luogo dove la morte è sicura rappresenta un’utopia che stempera gli accidenti di una Natura matrigna che su tutto si volge.
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